martedì 20 settembre 2016

Un caloroso saluto a tutti!

Oggi mi ispiro al video che ho postato per introdurvi alla lettura di un libro...

 

Nel video il minore afferma di aver abbandonato gli studi il secondo anno di frequenza di un Istituto tecnico...Ecco, mi soffermo su questo punto.
L'"abbandono scolastico precoce"  è spesso l'evento critico alla base di un percorso di vita deviante, lo afferma anche Carla Melazzini nel suo libro "Il principe di Danimarca" .

Risultati immagini per il principe di danimarca libro

C’è chi ha scritto che “Insegnare al principe di Danimarca” emoziona come tanti anni fa la “lettera” di Don Milani, ma questa è un’altra storia, ed è ambientata nelle periferie di Napoli. Fiorella Farinelli l’ha letta per Education 2.0. Il libro è di Carla Melazzini, curato da Cesare Moreno ed edito da Sellerio.


“Insegnare al principe di Danimarca”, uscito a giugno per Sellerio , è un libro che gli insegnanti farebbero bene a leggere. Ma non è scontato. A presentarlo, per il momento, non sono state riviste e siti che si occupano di scuola. Ne hanno scritto invece Repubblica, Internazionale, il sito di temi economici Sbilanciamoci, il quindicinale Rocca della Cittadella di Assisi. Ne scriverà anche Sapere, rivista di divulgazione scientifica, e siti e giornali di associazioni del volontariato sociale. Probabilmente prima o poi anche qualche testata “scolastica”, ma il ritardo fa pensare. Il fatto, curioso ma neanche tanto, è che qui si parla di educazione, e non di scuola. Non di discipline o di strumenti, ma di persone. E di una scommessa educativa che si può giocare solo destrutturando radicalmente l’apprendimento di tipo scolastico. Agli insegnanti di oggi può piacere? Chi scrive – l’insegnante di secondaria superiore Carla Melazzini, prestata per 11 anni a “Chance”, il progetto di recupero della scuola media per ragazzi napoletani che l’hanno abbandonata – sembra dubitarne. Fin dal titolo. “Un insegnante di media cultura e umanità è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane Amleto, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi... ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere i sentimenti di un adolescente di periferia che vive i tradimenti con l’intensità e la consequenzialità del principe di Danimarca?”. Già, quanti insegnanti sono disposti a cercare un rapporto profondo con le periferie della città e con le periferie dell’animo degli adolescenti “per stabilire con loro un dialogo educativo e di vita”? Non molti, si direbbe, guardando ai numeri del fallimento scolastico precoce nelle metropoli meridionali. Non nei quartieri degradati della Napoli un tempo industriale e operaia, oggi ridotti da una disastrosa deindustrializzazione a teatro di guerra di bande criminali. Eppure è da lì che bisogna passare quando gli studenti il bisogno di imparare l’hanno perso, bruciato da frustrazioni e povertà, insidiato dalla prossimità con la violenza e le brutalità in famiglia e per strada, frustrato da una scuola che “gli parla sopra”, da “un’istruzione imposta, che non buca la superficie”, da un’istituzione che non sa fare altro che bocciarli. Una volta, e poi ancora un’altra. Provare a tirarli fuori si può, ma le storie di formazione – e l’“apprendistato” di un gruppo di insegnanti che il metodo se lo inventano passo passo – descrivono passaggi tormentati e difficili. Melazzini scrive parole asciutte, senza retorica e senza indulgenze. Lo sguardo antropologico, a tratti psicoanalitico, svela verità sgradevoli e lontane dalle rassicuranti analisi della sociologia dell’educazione. La povertà che è anche dipendenza, e attaccamento ai suoi “vantaggi secondari”. Le mamme spesso oscuramente ostili a successi scolastici che potrebbero costringerle a prender atto dei propri fallimenti. Tanti ragazzi tentati di uscire dalla fragilità con l’affiliazione a un “Sistema” che, prima ancora che soldi e moto costose, garantisce il “rispetto”. Tante ragazze (40 gravidanze su 600 allievi passati da Chance) strette tra il modello femminile di mamme, nonne, bisnonne e quello che l’istruzione promette, un lavoro onesto, l’autonomia dai maschi di famiglia, la libertà di scegliere un’altra via. “Solo lentamente ci siamo resi conto di quanto la nostra scuola, proprio perché accogliente, potesse essere percepita come pericolosa, aprendo prospettive di relazione e di vita sentite come inaccessibili”. 
Eppure ci sono anche i successi, sostenuti da metodi didattici che bisognerebbe usare anche con studenti che non sono gli “spostati” di Barre, Scampia, Ponticelli. Quelli per esempio dei bienni dei tecnici e professionali di periferia, da cui Melazzini proviene. Lucide ed esemplari le pagine sull’insegnamento dell’italiano. Dal chiasso alla parola. Dai gesti e dalle urla al bisogno di una lingua capace di mettere ordine nel caos delle emozioni. Dalle grafie smozzicate di un’alfabetizzazione scadente ai miracoli di correttezza e nitore restituiti dagli schermi del computer. Dall’incapacità di controllarsi alla capacità di misurarsi con il clima e le regole degli esami finali. Tutto dev’essere conquistato poco alla volta, tra progressi e ricadute . Anche se c’è chi ha scritto che “il principe di Danimarca” emoziona come tanti anni fa la “lettera” di Don Milani una professoressa, non siamo in quella canonica in cui le differenze di classe sembravano spiegare tutto e in cui le 1000 o 2000 parole per riuscire nella scuola e nella vita erano un obiettivo forte e condiviso. Insegnare è difficile, non solo nelle periferie napoletane, e non si può senza educare. E a educare non si riesce se non si costruisce un dialogo “autentico”. Anche così però non tutti arrivano in porto. E allora si impara a ridimensionare “l’onnipotenza pedagogica, l’idea che basti insegnare in modo efficace e tutto si risolve”. Si torna a pensare che “finché non si opera un cambiamento di contesto è difficile il cambiamento individuale” … “abbiamo imparato a dire che un compito viene affrontato solo quando è psichicamente sostenibile”.

Storie di formazione che dicono molto anche a chi l’insegnamento non lo svolge in contesti così estremi. Eppure dopo 11 anni di esperienza, molte elaborazioni utili e molti risultati promettenti, Chance non c’è più, essendosi una dopo l’alta defilata ogni istituzione locale e nazionale che l’avevano resa possibile. Anche Carla Melazzini se ne è andata per sempre, nel 2009. Una mini-Chance è tornata però a vivere, per l’impegno del “maestro di strada” Cesare Moreno e con il supporto economico di Fondazioni private. 


sabato 17 settembre 2016

L'APPROCCIO CON I MINORI DETENUTI

PRIMA...

Prima di entrare tra quelle mura e dar inizio alla mia esperienza di tirocinio ero divisa tra due sensazioni contrastanti:


-  l'una di ENTUSIAMSO, di voglia di entrare e scoprire quel mondo del sommerso...di cui poco si conosce, e del quale, le cronache giornalistiche, spesso, aprono uno spiraglio in occasione di approfondimenti legati a "casi medatici", piuttosto che per una specifica finalità informativa.




 
- l'altra di TIMORE, legato all'utenza del tutto particolare con cui avrei dovuto interagire...
si tratta comunque di persone che hanno commesso reati di diverse gravità e tipologie.


...DURANTE...

l'Entusiasmo mi ha sempre accompagnata durante lo svolgersi dell'esperienza, il timore invece, ha ceduto il passo al coinvolgimento, all'ascolto, alla messa in discussione personale.
Ma anche,  alla scoperta di minori segnati da percorsi esistenziali tortuosi, paradossalmente "ricchi" di "povertà" e di "assenze":
- assenze relazionali, 
- assenze di adulti di riferimento significativi, 
- più in generale privi di famiglie (frammentate da litigi, abusi a più livelli...),
-mancanza di "contesti sani" (ambiente socio-culturale) capaci di sopperire alle gravi lacune educative familiari...

Le loro paure, i loro bisogni, le loro ambizioni, sono quelle tipiche dei ragazzi "fuori le sbarre":
- hanno paura dell'abbandono, (della famiglia, della fidanzata, degli amici...);
- desiderano essere "alla moda": proprio come la grande maggioranza degli adolescenti (cappellini griffati, scarpe di tendenza, t-shirt indossata dal cantate x...;
- sono ambiziosi: c'è chi vuole diventare pizzaiolo, chi insegnante, chi addirittura poliziotto...!

Il mio essere "DONNA" è stata una variabile degna di nota, (cosa che non avevo preso minimamente
in considerazione) in quanto, in un contesto prevalentemente caratterizzato dalla componente "maschile", e capace di mettere a nudo le proprie fragilità personali, la donna viene investita anche da ASPETTATIVE "MATERNE" ...(di ascolto, richiesta di consigli...).
Questo accadeva con me, ma credo di poter affermare la stessa cosa anche per altre figure femminili presenti (mediatrice culturale, educatrici...) .

il rapporto che si è instaurato con i minori, si è basato sul RISPETTO reciproco, infatti non ho incontarto particlari difficoltà relazionali.
Questi ragazzi, individuano le paure dei propri interlocutori, ancor più se quest'ultimi tentano di nasconderle, è quindi imporatante essere una persona capace di infondere  sicurezza, e capace di mantenere self control, in questo modo è più facile ispirare in loro il desiderio di aprirsi al dialogo. 
In generale la strategia comunicativa che ho adottato è stata quella di  PORMI IN ASCOLTO, (piuttosto che porre domande) ceracando poi, di dare loro una restituzione di valore.

DOPO...

Ciò che mi rimane di questi ragazzi, è che non sono altro ragazzi, nel pieno dell' adolescenza... con le loro incertezze e le loro difficoltà, connesse alla costruzione della propria identità, identità che, già ha conosciuto circuito del il sistema penale...
Proprio per questo, devono lavorare molto su se stessi, per avviare un FECONDO processo di CAMBIAMENTO e  per essere autori di un'AUTENTICA RINASCITA.
 

lunedì 5 settembre 2016

cosa centra Jhon Dewey?!

Buongiorno! 
in un post precedente vi avevo menzionato John Dewey,
credo che un approfondimento sulla sua teoria sia dovuto!
perchè spesso, i ragazzi detenuti rappresentano il fallimento di una società...che non ha saputo normare, "fermare", od orientare legalmente un suo membro.
 

domenica 4 settembre 2016

SOSPENSIONE DEL PROCESSO E MESSA ALLA PROVA

Buonasera carissimi!

In questa domenica di Settembre, dedico un post a Silvia e Federico,
  perchè ritengo che questo breve video possa rappresentare un feed-back fecondo
                  rispetto agli argomenti trattati nei commenti al post "GIUSTIZIA RETRIBUTIVA"
                                      

                                TRATTO DA:https://www.youtube.com/watch?v=KcoRrZ3EASg

venerdì 2 settembre 2016

IMPARARE FACENDO... per imparare un lavoro, ma soprtattutto per IMPARARE A VIVERE

Le attività che posso essere proposte
 in un carcere minorile!
...quanta verità nelle parole di John Dewey, Maria Montessori...
l'esperienza, "il fare" sono agenti edificanti per la persona, che, per scoprirsi, deve mettersi alla prova, sbagliare, riprovare...in definitiva, trovare se stessa!

giovedì 1 settembre 2016

GIUSTIZIA RETRIBUTIVA O..... GIUSTIZIA RIPARATIVA?

Questo post lo dedico in particolare a due persone:
- Anonimo: che ha sollevato una questione estremamente interessante, (quello della CERTEZZA DELLA PENA) nel suo commento al post "LO  SAPEVATE CHE IL CARCERE è UN'ISTITUZIONE TOTALE?"
- Eleonora: che nel primo post "BENVENUTI NEL MIO BLOG" aveva gettato le basi per un approfondimento in merito al tema "giustizia riparativa" senza sapere che intendeva proprio questo parlando dell'esigenza di "Fare inversione di marcia" !

Sento di rispondere facendo riferimento ad un convegno al quale ho partecipato,
e dal quale sono tornata più consapevole, meno ibrigliata nelle mie posizioni,
poco lungimiranti, forse perchè "viziate" da un'opinione pubblica incalzante,
e da sentimenti umani di rabbia e disappunto nei confronti di condanne "paradossali".
-  forse pochi sanno che nel nostro Paese ormai da quarant'anni la pena, la condanna, 
non dimora più esclusivamente all'interno del carcere (misure alternative alla detenzione).  
Spesso l'opinione pubblica ritiene che il "non carcere" corrisponda a "non pena", 
si ritiene quindi che, se una persona, autore di reato, viene condannato, 
e la sua condanna non viene eseguita all'inteno del carcere si sia in presenza di un paese che non esercita la "Giustizia". 
sembra che la DOMANDA DI GIUSTIZIA/CERTEZZA DELLA PENA 
sia una domanda che può  ritenersi soddisfatta solo se “CONDANNA = CARCERE”.
C'è ancora difficoltà a considerare,che oltre alla pena detentiva esistano 
misure alternative alla detenzione.


è come se una condanna, non possa avere un futuro che consente un percorso
dove da un "prima" si procede verso un "FUTURO" che contiene anche
la SPERANZA DI CAMBIAMENTO.
la GIUSTIZIA RIPARATIVA è un nuovo paradigma, che cerca di farsi spazio
all'interno del nostro Paese, ed è quel modello di giustizia dove l'attenzione
non viene posta esclusivamente al passato, (cioè al tempo in cui è stato commesso il reato) 
ma viene posto in un presente che, facendo i conti con il passato, 
si orienta verso  il futuro (come futuro in cui è possibile ristabilire i legami che il compimento del reato ha reciso,ha sospeso, ha violato).
mentre la giustizia RETRIBUTIVA è una giustizia che punisce,
 attraverso una pena e una condanna definitva; 
la giustizia riparativa si pone invece come obbiettivo quello di consentire una
riflessione sul reato, sul significato che questo ha avuto nella relazione con le altre persone
e la più ampia comunità.
la Giustizia riparatva pone l'accento sull'esigenza di RIPARARE IL DANNO ARRECATO
e quindi di chiedersi: qual'è il danno?  

ANCORA, in merito alla delicata questione "certezza della pena" sento di dire che: 
talvolta si rischa di far corrispondere l'idea archetipica di "Giustizia",
alla necessità concreta di rinchiudere le persone autrici di reato in carcere, 
e lanciare le chiavi...

In merito a questo delicato argomento, posto un video, 

spero possa risultare interessante!



Tratto da: https://www.youtube.com/watch?v=Q_iZIoLCSII

mercoledì 31 agosto 2016

ISTITUZIONE TOTALE

...sapevate che il carcere è...

 un'ISTITUZIONE TOTALE

questa definizione è stata coniata da

Erving GOFFMAN  

egli spiega il significato sottostante a questa definizione, in apertura di "Asylums"...

"Un'istituzione totale può essere definita come il luogo di resistenza e di lavoro di gruppi di persone che - tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo - si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato. 
Prenderemo come esempio esplicativo le prigioni nella misura in cui il loro carattere piú tipico è riscontrabile anche in istituzioni i cui membri non hanno violato alcuna legge. Questo libro tratta il problema delle istituzioni sociali in generale, e degli ospedali psichiatrici in particolare, con lo scopo precipuo di mettere a fuoco il mondo dell'internato".

 Ma cos’è una istituzione totale? 

Goffman indica con questa definizioni non solo le CARCERI ed i MANICOMI, ma tutti gli Istituti nei quali di norma non si accede per libera scelta personale.
 “Uno degli assetti sociali fondamentali nella società moderna è che l’uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità.... Caratteristica principale delle istituzioni totali può essere appunto ritenuta la rottura delle barriere che abitualmente separano queste tre sfere di vita. 
Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose. Terzo, le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito…
Per ultimo, le varie attività forzate sono organizzate secondo un unico piano razionale, appositamente designato al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione”.